Canti degli indiani d'America
a cura di Silvio ZAVATTI © 1977 Newton Compton editori s.r.l.
(Tascabili Economici Newton 48 TEN 29 - I edizione: novembre 1992)
Questi canti costituiscono
il segno più autentico e profondo della poesia indigena americana. Dai
rituali magici e contemplativi nella pace delle estese praterie, sui
monti, nel gelo invernale della regione dei laghi, ai canti di dolore di
rabbia che rievocano le campagni di sterminio operate dell'uomo bianco,
in questa antologia viene espriemdosi tutta l'anima e la tragedia
dell'esistenza di un popolo. «Di chi era la prima voce che riecheggiò su
questa terra? La voce del popolo rosso che aveva solo archi e frecce...
Cosa non è stato fatto nel mio paese senza che io lo volessi, senza che
io lo chiedessi; la gente bianca passa attraverso il mio paese elascia
una traccia di sangue dietro di sé...» In queste amare parole di un
grande capo sioux, Nuvola Rossa, è tutto il dramma del pellerossa. Dal
chiuso delle riserve costruite ai margini della civiltà urbana, la sua
anima inglobata ed insieme estraniata, ghettizzata, riesce ancora a
ritrovare il suo orgoglio, sa far udire la propria voce, decisa al
riscatto per una sopravvivenza che la opponga alla repressione della
«società capitalista». Amore e gioia, dolore e guerra, natura e magia,
tutta la realtà e l'universo mitico dell'indiano d'America emergono in
questi canti da quel silenzio in cui il «colonizzatore imperialista», il
suo linguaggio, le sue leggi, i suoi eserciti avrebbero voluto
confinarli.
dalla IV di copertina
PREMESSA
Impegnato da molto tempo a tradurre in italiano i canti del popolo eschimese, non solo è stata per me una felice fatica compiere la versione di una scelta di canti indiani, ma accostandomi al mondo spirituale di quella grande nazione ho scoperto un'altra voce di quella poesia pura che tanto incanta oggi i nostri studiosi.
È vergognoso, per il bianco, aver distrutto un mondo così grande di poesia e di cultura tradizionale e aver sommerso i suoi resti sotto il rullo compressore di una «civiltà» che tutto vuole pianificare nel nome della ricchezza e di non si sa bene quale progresso.
Ho diviso i canti per argomenti perché i lettori potessero fare subito il confronto fra il pensiero e i sentimenti delle tribù geograficamente più lontane fra loro, in una ridda di nomi di Nazioni Indiane che comprendono gli Abanaki e i Micmac, gli Irochesi e gli Obibwa, i Chippewa e i Cherokee, gli Omaba e gli Inca, i Zuñi e i Navajo, gli Haida e i Tlingit, gli Apache e i Pawnee, ecc.: il fior fiore di un quel popolo che un cinema addomesticato e una letteratura di colore ci ha sempre fatto conoscere come assetato di sangue e freddo collezionista di capigliature.
Oggi,
una storiografia seria e una serena ricerca storiografica, hanno
disperso per sempre le nebbie del nazionalismo e hanno ben definito, al
di là di ogni dubbio, chi erano i sanguinari.
Purtroppo,
la distruzione della Nazione Indiana è ormai avvenuta e non resta che
accostarci in umiltà a queste voci di un passato così lontano, se non
nel tempo, nelle concezioni esistenziali di una vita che nessuna sa dove
andrà a finire.
I
popoli a civiltà tradizionale non conoscevano la rima, e i loro canti
erano un recitato accompagnato dalla danza e dal suono degli strumenti
musicali. Bisogna leggerli così, quasi seguendo un sottofondo musicale
fatto di pause e di toni smorzati.
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