mercoledì 7 marzo 2007

Canti degli indiani d'America [IT. 1977. Silvio ZAVATTI]

Canti degli indiani d'America
a cura di Silvio ZAVATTI © 1977 Newton Compton editori s.r.l.
(Tascabili Economici Newton 48 TEN 29 - I edizione: novembre 1992)

Questi canti costituiscono il segno più autentico e profondo della poesia indigena americana. Dai rituali magici e contemplativi nella pace delle estese praterie, sui monti, nel gelo invernale della regione dei laghi, ai canti di dolore di rabbia che rievocano le campagni di sterminio operate dell'uomo bianco, in questa antologia viene espriemdosi tutta l'anima e la tragedia dell'esistenza di un popolo. «Di chi era la prima voce che riecheggiò su questa terra? La voce del popolo rosso che aveva solo archi e frecce... Cosa non è stato fatto nel mio paese senza che io lo volessi, senza che io lo chiedessi; la gente bianca passa attraverso il mio paese elascia una traccia di sangue dietro di sé...» In queste amare parole di un grande capo sioux, Nuvola Rossa, è tutto il dramma del pellerossa. Dal chiuso delle riserve costruite ai margini della civiltà urbana, la sua anima inglobata ed insieme estraniata, ghettizzata, riesce ancora a ritrovare il suo orgoglio, sa far udire la propria voce, decisa al riscatto per una sopravvivenza che la opponga alla repressione della «società capitalista». Amore e gioia, dolore e guerra, natura e magia, tutta la realtà e l'universo mitico dell'indiano d'America emergono in questi canti da quel silenzio in cui il «colonizzatore imperialista», il suo linguaggio, le sue leggi, i suoi eserciti avrebbero voluto confinarli.
dalla IV di copertina

PREMESSA
Impegnato da molto tempo a tradurre in italiano i canti del popolo eschimese, non solo è stata per me una felice fatica compiere la versione di una scelta di canti indiani, ma accostandomi al mondo spirituale di quella grande nazione ho scoperto un'altra voce di quella poesia pura che tanto incanta oggi i nostri studiosi.
È vergognoso, per il bianco, aver distrutto un mondo così grande di poesia e di cultura tradizionale e aver sommerso i suoi resti sotto il rullo compressore di una «civiltà» che tutto vuole pianificare nel nome della ricchezza e di non si sa bene quale progresso.
Ho diviso i canti per argomenti perché i lettori potessero fare subito il confronto fra il pensiero e i sentimenti delle tribù geograficamente più lontane fra loro, in una ridda di nomi di
Nazioni Indiane che comprendono gli Abanaki e i Micmac, gli Irochesi e gli Obibwa, i Chippewa e i Cherokee, gli Omaba e gli Inca, i Zuñi e i Navajo, gli Haida e i Tlingit, gli Apache e i Pawnee, ecc.: il fior fiore di un quel popolo che un cinema addomesticato e una letteratura di colore ci ha sempre fatto conoscere come assetato di sangue e freddo collezionista di capigliature.
Oggi, una storiografia seria e una serena ricerca storiografica, hanno disperso per sempre le nebbie del nazionalismo e hanno ben definito, al di là di ogni dubbio, chi erano i sanguinari.
Purtroppo, la distruzione della Nazione Indiana è ormai avvenuta e non resta che accostarci in umiltà a queste voci di un passato così lontano, se non nel tempo, nelle concezioni esistenziali di una vita che nessuna sa dove andrà a finire.
I popoli a civiltà tradizionale non conoscevano la rima, e i loro canti erano un recitato accompagnato dalla danza e dal suono degli strumenti musicali. Bisogna leggerli così, quasi seguendo un sottofondo musicale fatto di pause e di toni smorzati.

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